Di rammendi del cuore…
Per tutta la nostra vita insieme, mia madre era solita chiedermi di aiutarla nei piccoli lavori di casa.
E così la pulizia di fagioli e fagiolini, il caffè dopo il pranzo e la cena, lo sparecchiare la tavola, stendere il bucato in giardino, la passata veloce del mocio sui pavimenti di bagno e cucina erano compiti lasciati a me.
Ovviamente, come ogni brava adolescente che si rispetti, ogni tanto protestavo e l’unica risposta che ottenevo era la recita a piena voce di “impara l’arte e mettila da parte”.
Motto veloce, rapido e indolore che non mi lasciava spazio ad alcuna risposta.
Mamma cuciva molto.
Era una sarta per hobby ma avrebbe potuto farlo tranquillamente come lavoro da tanto era brava.
Puntigliosa, precisa, se il lavoro non risultava come lei voleva, scuciva tutto e ricominciava, un discreto esercizio Zen che io non avrei mai potuto praticare.
E nei suoi lavori e riparazioni fatti per amiche e vicine, coinvolgeva anche me.
A me era dato il compito di passare le imbastiture lungo i pezzi di stoffa che poi venivano assemblati fra loro per diventare camicie, vestiti o giacche.
Ero una sorta di mozzo del cucito.
Le mie mani hanno toccato centinaia di stoffe diverse e visto una miriade di colori e fantasie.
Mamma, con gli occhiali sul naso e china sulla macchina da cucire fino a notte fonda, mi obbligava ad aiutarla dicendomi che bisognava sempre imparare qualcosa che ci sarebbe stato utile un giorno.
E io, a malavoglia, infilavo ago e filo e passavo i punti larghi da imbastitura lungo i segni lasciati dal gesso per poi aprire i lembi di stoffa e tagliarli nel mezzo.
Facevo parte della catena di montaggio.
Ormai sapevo da sola cosa dovevo fare.
Preparare gli stampi in carta velina e passare le imbastiture.
Sapere che la sera mamma cuciva in cucina fino a notte fonda mi dava conforto e sicurezza.
Mi addormentavo ascoltando rumori che ormai riuscivo ad anticipare per qualche decimo di secondo.
Il suono delle forbici da sarta durante il taglio, le forbici che venivano lasciate cadere pesantemente sul tavolo, il piede di mamma sul pedale della macchina da cucire che di lì a qualche secondo avrebbe iniziato la sua corsa.
Fra il piede sul pedale e l’inizio della corsa c’erano le mani silenziose di mamma che sistemavano meticolosamente la stoffa sotto il piedino della macchina da cucire.
Era quasi un rito, ma credo lei non si rendesse conto di questo, talmente abitudinaria, costante e precisa era la sequenza.
Ora mamma non cuce più, o almeno non lo fa come una volta.
Le mani nodose non sono più agili e gli occhi si sono indeboliti, ma l’animo creativo è ancora intatto e per fortuna riesce ancora a produrre lavoretti deliziosi.
E così oggi, rammendando federe di cuscini con la macchina da cucire di mamma che ormai è mia, mi sono ritrovata a pensare e ripensare a quel “impara l’arte e mettila da parte”.
Mi sono ritrovata, nei movimenti, a fare quello che faceva lei, con i medesimi rumori e i medesimi tempi. Mi sono ritrovata a scucire una cucitura venuta storta e mi sono ritrovata a passare il filo nell’ago con gli occhiali sul naso proprio come faceva lei.
E un po’ ho pianto, ma poco poco, nel pensare a lei, che rivedrò dopodomani.
Foto: mia